A fronte di un utilizzo improprio dei social network da parte di società e singoli tesserati alla FIPT, si pubblica nuovamente l'articolo dell'Avv. Lina Musumarra pubblicato in www.personaedanno.it (sezione interessi protetti/sport) lo scorso14 giugno.
“VIOLAZIONE DEL CODICE DI COMPORTAMENTO SPORTIVO NELL’USO DEI SOCIAL NETWORK”
di Lina MUSUMARRA
L’utilizzo sempre più diffuso dei social network da parte dei soggetti appartenenti all’ordinamento sportivo per esprimere le proprie opinioni consente che le stesse possano giungere ad un diffuso numero di persone senza poter essere singolarmente individuate. E’ evidente – secondo l’orientamento ormai costante della giustizia sportiva - che “allorquando si sceglie detto strumento, sia per la diffusione delle proprie idee, nonché per formulare apprezzamenti nei confronti di altri tesserati, è necessario avere maggiore cautela rispetto ad altre forme di comunicazione” (cfr., Federazione Ciclistica Italiana - Commissione Disciplinare Federale Nazionale, decisione n. 7/2012, pubblicata sul Comunicato n. 6 del 30 ottobre 2012).
Appare interessante in questo contesto evidenziare gli elementi che caratterizzano la violazione disciplinare, costituiti dalla “potenzialità diffusiva degli strumenti – il social network e l’e-mail indirizzata ad una pluralità di persone - utilizzati per manifestare il proprio pensiero”. Infatti, nel caso di specie, “la possibilità e la volontà che le affermazioni fossero lette da un numero potenzialmente indefinito di utenti amplifica l’intento diffamatorio nei confronti del Sig. (…) e viola, nello specifico, l’art. 7 del Codice di comportamento sportivo del CONI” (cfr. Federazione Italiana Triathlon – Giudice Unico, decisione n. 5/2011, nonché la deliberazione del Consiglio Nazionale Coni del 30 ottobre 2012, in www.coni.it, con la quale è stato approvato il nuovo testo del Codice).
La predetta disposizione, in tema di “Divieto di dichiarazioni lesive della reputazione”, prevede che “i tesserati, gli affiliati e gli altri soggetti dell’ordinamento sportivo non devono esprimere pubblicamente giudizi o rilievi lesivi della reputazione, dell’immagine o della dignità personale di altre persone o di organismi operanti nell’ambito dell’ordinamento sportivo”, dovendosi comportare “secondo i principi di lealtà e correttezza in ogni funzione, prestazione o rapporto comunque riferibile all’attività sportiva” (art. 2), la cui “violazione costituisce grave inadempimento meritevole di adeguate sanzioni” (comma 2 della Premessa del Codice). Con riferimento più specifico all’uso di Facebook, la Commissione Disciplinare Nazionale della Federciclismo ha rilevato che “date le note caratteristiche del social network, tale ‘profilo’ può essere ‘pubblico’ – nel qual caso la diffusione delle informazioni lì apposte è senza dubbio assimilabile a quella di un sito web – o può essere ristretto a c.d. ‘amici’. Anche in tale ultimo caso, però, il meccanismo dei contatti può dare luogo ad una diffusione dei messaggi comunque significativa. Per tali ragioni avvalersi di Facebook comporta sempre una consapevole accettazione dei rischi di una sua non corretta utilizzazione”.
Nella fattispecie in esame – come chiarito dallo stesso presidente della società incolpata – “la squadra titolare del ‘profilo’ non aveva un rigoroso controllo delle credenziali per l’appostazione di informazioni. Per tale ragione può ritenersi sussistente una sua responsabilità oggettiva, indipendentemente dall’accertamento di chi abbia in concreto scritto le frasi ingiuriose” (decisione n. 8/2012, pubblicata sul Comunicato n. 6 del 30 ottobre 2012).
Anche la Commissione Giudicante Nazionale della Federazione Italiana Pallavolo è intervenuta in un caso concernente la commissione di illeciti disciplinari tramite le pagine del social network (decisione del 29 febbraio 2012, pubblicata nel Comunicato n. 30 dell’8 marzo 2012), applicando la sanzione dell’ammonizione ad una atleta che aveva “condiviso il contenuto del messaggio diffuso tramite Facebook” da un’altra persona, ex tesserata, contenente gravi accuse di parzialità e malafede rivolte a due tesserati arbitri. L’atleta, pur avendo ammesso di aver “clickato il tasto mi piace” in calce al commento all’arbitraggio pubblicato dalla tifosa, ha voluto precisare che “il tasto predefinito non costituisce a suo avviso una presa di posizione, servendo unicamente ad evidenziare la presa visione del testo scritto”. Secondo la Commissione Giudicante, sotto il profilo oggettivo, le parole e le frasi usate nel messaggio diretto agli arbitri “appaiono senz’altro idonee a concretizzare un comportamento ingiurioso, in quanto lesivo della professionalità, del decoro e della reputazione degli arbitri”. Il messaggio è stato comunicato a tutti coloro che potevano accedere al profilo facebook dell’autrice, postandolo sulla propria pagina. Si tratta quindi di stabilire se “l’utilizzo del tasto predefinito ‘mi piace’ possa dar luogo ad un comportamento riprovevole sotto il profilo disciplinare”: la Commissione, “pur non ritenendo possibile ravvisare una condotta rilevante dal punto di vista del diritto statale nel comportamento di colui o di colei che clickando più o meno consapevolmente il tasto in questione compaia nell’elenco delle persone alle quali il post piace”, reputa che “qualora tra le suddette persone compaia un tesserato che mostra in tal modo comunque un assenso se non una vera e propria esplicita approvazione delle ingiuriose affermazioni in danno di un soggetto investito di una specifica funzione federale, quale l’arbitro, la circostanza sia rilevante sotto il profilo della violazione del generale dovere di lealtà e probità sportiva, che impone ad atleti e tesserati un quid pluris in termini di prudenza e fair play”.
Occorre ricordare, più in generale, che l’assenza di una specifica regolamentazione in materia ha determinato, nel 2007, l’intervento del Garante per la privacy per quanto attiene l’individuazione dei principi applicabili al controllo su internet da parte del datore di lavoro:
a) necessità: il controllo deve risultare necessario ovvero indispensabile rispetto ad uno scopo determinato. I sistemi informativi e i programmi devono essere configurati riducendo al minimo l’utilizzo di dati personali e identificativi;
b) trasparenza: il datore di lavoro ha l’onere di informare preventivamente i propri dipendenti sui limiti di utilizzo delle strumentazioni informatiche nonché sulle sanzioni eventualmente previste;
c) pertinenza e non eccedenza: i trattamenti devono essere effettuati per finalità determinate, esplicite e legittime. Il datore di lavoro deve trattare i dati nella misura meno invasiva possibile. Le attività di monitoraggio devono essere svolte solo da soggetti preposti.
Con riferimento, più specifico, ai social network, il Garante, nel 2009, ha pubblicato una breve guida finalizzata ad un utilizzo consapevole di tali strumenti, i quali “danno l’impressione di uno spazio personale o di piccola comunità. Si tratta, però, di un falso senso di intimità che può spingere gli utenti a esporre troppo la propria vita privata, a rivelare informazioni strettamente personali, provocando effetti collaterali”. In tal senso il Garante consiglia di utilizzare “impostazioni orientate alla privacy, limitando al massimo la disponibilità di informazioni, soprattutto per quanto riguarda la reperibilità dei dati da parte dei motori di ricerca”.
Peraltro, il Tribunale di Livorno – Ufficio GIP (cfr. sentenza n. 38912 del 31 dicembre 2012) ha confermato che “gli utenti di Facebook sono consapevoli del fatto che altre persone possano prendere visione delle informazioni scambiate in rete, anche a prescindere dal loro consenso: trattasi dell’attività di ‘tagging’ che consente, ad esempio, di copiare messaggi e foto pubblicati in bacheca e nel profilo altrui oppure email e conversazioni in ‘chat’, che di fatto sottrae questo materiale dalla disponibilità dell’autore e sopravvive alla stessa sua eventuale cancellazione dal social network”.
Nel caso di specie, “l’uso di espressioni di valenza denigratoria e lesiva della reputazione del profilo professionale della parte civile integra sicuramente gli estremi della diffamazione alla luce del detto carattere pubblico del contesto in cui quelle espressioni sono manifestate, della sua conoscenza da parte di più persone e della possibile sua incontrollata diffusione tra i partecipanti alla rete del social network”.